Morto Padre Gambale, addio al custode dei ricordi di San Pio

martedì 16 aprile 2013

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| Rassegna Stampa

E’ l’intera comunità irpina a piangere Padre Antonio Gambale, infaticabile uomo di fede e di pace, ultimo depositario dei pensieri di Padre Pio, morto ieri in ospedale a causa di complicazioni legate alla malattia di cui soffriva da tempo. Nato a Montemarano l’8 febbraio del 1936, era sacerdote cappuccino dal 1961, quando pronunciò la professione solenne. Fu vicedirettore e insegnante nel seminario serafico di Pietrelcina, dal 1963 al 1967. Nell’aprile del 1967 scelse di andare come missionario in Africa nel Ciad, dove, per 15 anni, ha svolto un intenso apostolato nelle stazioni missionarie di Gorè, Bèbeja e Bam.
Custode della basilica cimiteriale di San Nicandro in Venafro dal 1985 al 1991, sarà poi parroco di Pietrelcina dal 1 settembre 1991 al settembre 2001, un decennio molto importante che lo vedrà protagonista nella cura dei luoghi dell’infanzia e della giovinezza di Padre Pio. Nel 2011 aveva festeggiato, nella chiesa del SS. Rosario di Gesualdo, 50 anni di sacerdozio alla presenza delle massime autorità locali. A sottolineare il forte contributo alla rinascita culturale di Gesualdo è la pro loco Civitatis Iesualdinae: «La sua presenza nel Convento dei Padri Cappuccini ha segnato un rilancio forte per la comunità, grazie alla sua straordinaria capacità di aggregazione e di dialogo. Il suo impegno inoltre nella testimonianza delle virtù di San Pio, di cui fu amico, ha lasciato a Gesualdo opere e messaggi di pace che rimarranno ad indelebile ricordo della sua encomiabile missione». I funerali si terranno questa mattina presso la chiesa del convento dei cappuccini di Montefusco. Pubblichiamo di seguito il ricordo di Aldo De Francesco che con Padre Gambale aveva scritto il volume “I miei anni con Padre Pio”.

Conoscevo padre Antonio da una vita, dall’infanzia, trascorsa insieme nel comune paese natio, in quella irripetibile libertà fanciullesca, per sempre indelebile.
La minuscola stradetta dov’ era nato, si chiama via San Benedetto: un nome che da solo può evocare la dignitosa miseria del nostro Sud interno, le sue frugali regole di vita. Un tempo era abitata da una umanità unica, tra tetti bassi e una schiera di casette, le cui grondaie si toccavano con le dita come si fa con i rami degli alberi domestici. In fondo alla via, che dà su una rupe, vi era e v’è ancora un casa, particolarmente esposta al vento. Vento che gemeva e cantava. I vecchi con particolare rispetto, lo chiamavano “’a vereventana”, cioè beneventana , perché proveniente dal vicino amico Sannio. Sulla casa di padre Antonio, a via San Benedetto , d’estate e d’inverno, il fumo, per un singolare mulinello, usciva dal camino e rientrava poi dall’uscio, da una porta munita di portello e di gattaiola, attraverso la quale i gatti potevano uscire ed entrare a loro piacimento mentre gli inquilini si spaccavano il cuore a lavorare nei campi. La gente del mio paese, a causa di quel giocoso mulinello, non esitò a chiamare chi abitava la casa di Via San Benedetto con accenti verghiani, i “Cacciafumo” .
Buona, brava gente, i “Cacciafumo”: il capofamiglia Antonio Gambale e la madre Filomena Moretto, due esili figure, due statuine filiforme, operose, eternamente in cammino, a piedi, dietro un asino come la sacra famiglia; e in più, una carretta di otto figli, l’ultimo dei quali, Arturo, che, prese poi da frate, il nome di padre Antonio.

Arturo era vivacissimo: un “furolo”, dicevano in paese, prendendo a prestito, per definirne la prorompente vivacità, un “pezzo” dei fuochi d’artificio natalizi, che porta scompiglio per le sue imprevedibili e saettanti acrobazie. Ne erano terrorizzate le donne che uscivano dalla chiesa sorprese da lanci improvvisi e insidiosi.
Impertinente e generoso, tutto si poteva pensare di lui, tranne che sarebbe potuto diventare un frate, un frate per giunta di frontiera, missionario; anche se la sfida, l’avventura, sin da ragazzo, furono la sua cifra. Altri ci avrebbe preparato a quella scelta, ma ad Arturo piaceva giocare, accompagnare le cose più serie con il disincanto del giullare dispettoso.
Una sera, mentre lo attendevamo per i consueti giochi in piazza, di cui era un temerario e imprevedibile animatore, sapemmo che era partito per “farsi monaco”. Un gergo sbrigativo che univa da subito vocazione e professione solenne. Impossibile immaginare Arturo dentro la rigida disciplina claustrale, con giorni scanditi da doverose liturgie; bastarono però pochi anni per convincerci del contrario che quel “discolo” sarebbe diventato un grande e coraggioso sacerdote .
Meno che mai avrei potuto immaginare che, nella maturità, attraverso percorsi diversi, lo avrei dovuto frequentare a lungo, per raccontarne in un’opera la sua biografia, il suo travolgente apostolato, racchiuso in due qualificanti approdi di intensa religiosità: prima come missionario nel Ciad, nel 1967, per oltre 15 anni; e poi, dal 1991 al 2001, come parroco di Pietrelcina, la terra del suo maestro, da diventarne per un decennio una sorta di ambasciatore.

Padre Pio è una figura predominante nella sua esistenza, il suo angelo custode.
Fin da ragazzo, dal noviziato aveva sempre sentito il desiderio di andare in Africa come missionario, una passione rinvigorita negli anni. Ma la cosa non era certo facile in una provincia monastica come quella di Foggia, che non aveva missioni all'estero compatibili, dove aggregarsi, quando Padre Antonio si convinse che il progetto si sarebbe potuto realizzare, volle chiedere la benedizione di Padre Pio. Era il marzo del 1966 e, per ottenerla, sapendone la disponibilità nel venire sempre incontro ai confratelli, andò a San Giovanni Rotondo. Di quell’incontro straordinario, testimonianza di notevole respiro umano e mistico, voglio lasciarne a lui la narrazione, a Padre Antonio, cosi come me lo raccontò: un omaggio, sono certo, conoscendolo bene, che più avrebbe gradito.
“Sentivo in me la necessità di parlargli a tu per tu- mi disse- . In altre circostanze mi aveva sempre accolto lì nella veranda del convento, davanti a una serra di precoci ciclamini, ma, quella volta, intuendo che ciò che stavo per chiedergli fosse per me molto importante, esclamò con il solito tono energico: “Ue guagliò , è meglio che entriamo dentro. Qui ci stanno troppi spifferi .
Appena entrammo disse: “Pigliati ’a seggia e mettiti vicino a me. Mi sedetti al suo fianco e cominciai a parlargli. Lui mi guardava con quegli occhi che sembravano di brace, ardenti ma dolci; il suo sguardo, che, di solito, intimidiva, mi spingeva invece a manifestargli subito i pensieri più nascosti.
“Padre- gli dissi- da ragazzo, quando al mio paese venivano i missionari, e ogni sera spiegavano alla gente il Vangelo, ho sentito in me la vocazione di seguirne l’esempio. Finalmente oggi questa occasione è a portata di mano, da tempo sono in contatto con un padre che sta in Eritrea; e ora se Dio vuole , mi dice che è possibile partire. Potrei anch’io andare in Africa. Mi è permesso farlo? Tu solo puoi e devi dirmelo”.

Pronunciate queste parole, aspettai un suo cenno, ma rimase muto. Anzi levò il capo indietro, poi con le mani alle tempie, all’improvviso, cominciò a piangere come non avrei mai immaginare potesse accadermi di vedere. Le lacrime gli scendevano copiose sulle gote, bagnavano lo scrittoio, fino a lambire un messale che sistemai in un cassetto vuoto. Sempre piangendo, lui prese a dirmi:
-“Figlio mio, tu sei più buono di me; tu sei più buono di me!”.
-“Come si potevano accettare simili parole, pronunciate da un santo senza umiliarsi per tali accenti? Padre- gli dissi ancora- perché parli così? Io sono mortificato, io un povero frate, semplice frate che deve misurarsi ancora con le vere prove dell’apostolato?”.
-“Figlio mio- concluse Padre Pio- vuoi sapere perché ho detto queste cose? Perché a te il Signore ha concesso la grazie di andare in Africa, e io non sono stato degno di andare in missione. Vai guagliò. Io non so in quel parte del modo andrai, so di sicuro che troverai intorno a te gente affamata di cibo e di fede, raccontagli con parole semplici, che hai conosciuto un uomo che prega per loro ma che chiede in cambio, non doni , ma altrettante preghiere? Capito guagliò? E mo’ vattenne ’n grazie”.
Formato dalla chiesa di trincea, di cui aveva la vocazione, la sua missione in Africa vive prove drammatiche, esposto in una fragile capanna in mezzo alla giungla ai pericoli e alle insidie più imprevedibili provenienti da popoli aborigeni e da una fauna selvaggia, più di una volta scampò alla morte grazie alla intercessione di Padre Pio, che gli apparve una notte di capodanno, mentre era solo, in quella terra d’Africa, in preda a una improvvisa maligna “febbraccia”, causata da una grave infezione, che lo stava calando nella tomba.

Dopo la missione nel Ciad, nel segno di una continuità di apostolato senza eguali per vigore e intensità, divenne parroco della terra di Padre Pio, dove gli toccò ricomporre, riordinare le testimonianze, il percorso sacerdotale del suo Maestro, nel momento in cui la sua santificazione faceva di Pietrelcina la seconda Assisi, promuovendola quale centro di universale culto francescano.
Padre Antonio lo ha fatto a modo suo, con la carota e il bastone, la dolcezza e la decisione, la preghiere e anche qualche brusca cacciata dal tempio, senza ipocrisie, riuscendo a contenere ogni manifestazione di fede e di devozione nella fedeltà degli insegnamenti avuti da Padre Pio.
La sua scomparsa non solo addolora Montemarano, il paese nativo- dove il suo ricordo di nobile e amato figlio resterà incancellabile- ma rattrista migliaia e migliaia di persone, che hanno avuto modo di conoscerlo, cosi come era, con la sua franchezza, e per questo forse più apprezzato.
Io perdo un amico molto caro, spesso anche spigoloso, che aveva però un grande merito, un carisma particolare: di farti sentire meglio quando lo incontravi e di farti prendere il mondo mai troppo seriamente. Era questa la sua liturgia vincente, che faceva breccia in chiunque, e ammansiva anche le coscienze più dure a redimersi. Una qualità, non certo patrimonio di molti, ma di quei pochi, che sanno predicare senza il bisogno di un pulpito.